La vertenza ha riguardato una dipendente del Ministero della Giustizia, che prestava servizio sulla base di un orario giornaliero dalle 8,00 alle 15,12, per cinque giorni la settimana, rinunciando, con il consenso dell’Amministrazione, alla pausa pranzo.
Non avendo percepito in tale periodo i buoni pasto giornalieri, ha agito giudizialmente per ottenere il pagamento del controvalore pecuniario, con domanda che è stata respinta prima dal Tribunale e poi dalla Corte d’Appello di Roma.
La decisione viene confermata anche dalla Cassazione, secondo cui il cosiddetto buono pasto non è, salva diversa disposizione, elemento della retribuzione “normale”, ma agevolazione di carattere assistenziale finalizzata ad alleviare, in mancanza di un servizio mensa, il disagio di chi sia costretto, in ragione dell’orario di lavoro osservato, a mangiare fuori casa.
Essa quindi spetta solo ove ricorra il presupposto dell’effettuazione della pausa pranzo.
Nel caso di specie, viceversa, era pacifico che la pausa pranzo non fosse stata fruita, per rinuncia ad essa della lavoratrice, evidentemente al fine di poter terminare anticipatamente, nel primo pomeriggio, la prestazione di lavoro.
(Cass. Sezione Lavoro, n. 22985 del 21/10/2020)